sabato 8 giugno 2013

73. Il S. Maria nuova di Reggio Emilia e l’igiene negli ospedali degli anni ‘50/60 dai ricordi di un'infermiera

Vecchio ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia


Sono stata contattata da un’insegnante che stava svolgendo una ricerca sull’igiene del passato nell’Appennino.  In questo blog ci sono vari post che, indirettamente, ne parlano. Ma soprattutto ho segnalato, alla ricercatrice, una ex infermiera, Ines Bonini, entrata all’Ospedale S. Maria nuova di Reggio Emilia nel 1961 e che, quindi, avrebbe potuto chiarire tutte le sue domande su come veniva gestita l’igiene nella metà del secolo scorso.

Ho interrogato anch’io Ines, perché la cosa mi incuriosiva e, quello che mi ha raccontato degli ospedali degli anni ‘50/60, mi ha lasciata allibita. Infatti, l’ospedale  descritto dall’ex infermiera è uno di quei luoghi dove nessuno di noi vorrebbe mai  trovarsi. Non solo per la sofferenza che vi regnava, ma anche per la mancanza totale di igiene e pulizia che lo caratterizzava. Se Ines non si è mai presa nessuna infezione lo deve solo ai robusti anticorpi formatisi quand’era bambina a contatto con il bestiame, in un mondo contadino dove non ci si preoccupava troppo dell’igiene.


Oggi, gli infermieri accedono alla professione dopo aver conseguito una laurea breve. Negli anni ’60 ci si entrava  dal basso:  prima come lavorante poi con corsi qualificanti che permettevano di acquisire la professione poco a poco, tra pratica e teoria. 


L’igiene a quel tempo era una grande sconosciuta, infatti, appena entrata, Ines viene assegnata al settore lavanderia situato nei locali sotterranei del Santa Maria, un reparto dove affluisce biancheria  sporca di sangue e di vari liquidi organici, piena di germi,  infetta, perché a contatto con gli ammalati o proveniente dalle sale operatorie. Ebbene, nessuno di loro usa guanti.  La biancheria viene presa a piene mani e, alla fine del servizio, non ci si preoccupa nemmeno di lavarsele. Ma  malgrado questa promiscuità con microbi, infezioni, batteri,  al personale non succede proprio nulla. Ai pazienti sì, invece, perché mia zia mi ha raccontato che per una semplice appendicite è dovuta restare un mese in ospedale per un’infezione sopraggiunta!
Una corsia nel vecchio ospedale di Reggio Emilia (anni '50)

Dopo la biancheria, Ines viene spostata alle cucine. Alé, peggio di peggio! Il reparto “cucina” di un ospedale grande come poteva essere il S. Maria,  è quello che al giorno d’oggi è  più lontano  dalla modernità, dunque inimmaginabile.
Quando entra  nelle cucine, l’aspirante infermiera vede lunghissimi forni che funzionano a carbone e che lei e gli altri lavoranti devono alimentare a palate. Quando esce da quelle cucine, sembra la “Cenerentola” della fiaba  perché è tutta  nera, sporca di fuliggine.  Ma il bello (o piuttosto il brutto) deve ancora venire: in quel periodo non ci sono ancora i grandi frigoriferi  di adesso, ma solo pochi elementi. Il latte viene portato direttamente dalle stalle e gli animali da cortile come galline, conigli, polli, vengono forniti vivi. Ines ricorda che uno dei  suoi primi compiti è stato quello di andare a prendere un piccione per cucinare il brodino che sarebbe poi stato  servito ai bambini ammalati. Nella cambusa, quando si è trovata naso a naso con il volatile che non voleva morire, la giovane allieva non ha avuto il coraggio di infierire oltre sulla povera bestie che la guardava spaventata ed è tornata a mani vuote, con gran disappunto del cuoco.
Il sudiciume di queste cucine attirava animali di tutti i generi, in particolare topi che vi scorrazzavano  malgrado le varie trappole per acciuffarli: nelle gabbiette messe allo scopo a rimanerci, invece, erano quasi sempre le dita dei  lavoranti perché la molla che doveva bloccare il ratto scattava sempre in ritardo!

L’apprendista infermiera, a quel punto, era arrivata infine alla terza fase: quella della cura diretta degli ammalati.  L’ospedale era brutto, vecchio,  con grandi camerate dove venivano intasati anche più di venti  pazienti per volta. Vi sono stata ricoverata anch’io  nel 1960 per una gamba rotta e posso, quindi, testimoniare di questa realtà. I reparti , allora, erano quasi tutti diretti da suore che avevano un vero potere su tutti, anche sui medici. Per cui era indispensabile tenersele buone, dimostrando di seguire con scrupolo le funzioni religiose. Mentre la carità cristiana, con il passare del tempo, veniva smarrita del tutto anche da queste religiose e i pazienti non sempre erano trattati con il dovuto riguardo.  

Di quel periodo Ines rammenta una gran confusione,  come se tutto avvenisse in modo approssimativo, lasciato  alla buona volontà delle persone. C’era tanta promiscuità, si lavavano i malati a letto, sempre senza guanti.  I pazienti  non disponevano di pulsanti elettrici per chiamare, ma sul comodino capeggiava  una campanella che suonavano in caso di necessità:  se il malato era troppo debole e non riusciva a scuoterla,  era il vicino di letto a chiamare per lui, almeno tra gli ammalati vigeva una forte solidarietà. L’unica nota positiva: il bagno era alla turca, ovvero con un buco nel mezzo e, almeno quello, era più igienico rispetto a quelli attuali, anche se meno pratico.

La prima notte di guardia è quella che Ines ricorda ancora come un incubo. Nel suo reparto è ricoverata una vecchia barbona, tutta lacera e sporca, completamente ubriaca. Per non svegliare tutti i pazienti della camerata le infermiere, di notte, si muovevano con le torce.  Ed è  in piena notte che alla nostra allieva  viene insegnato come fare la prima puntura e proprio a questa povera disgraziata, che sembra dormire profondamente. La suora regge la torcia, mentre la ragazza cerca di fare del suo meglio con la siringa. Evidentemente qualcosa va storto perché la dormiente, appena Ines conficca con mano tremante l’ago,  si sveglia all’improvviso, lancia un urlo disumano e fa un gran salto nel letto che la fa cadere perterra. Questo trambusto sveglia di soprassalto tutti i malati della camerata!  

In tutto questo bailamme, la nota positiva arriva quando Ines è inviata a Parma per  seguire i corsi. L’ospedale di Parma è anche sede universitaria per cui, lì, l’igiene viene presa in dovuta considerazione e, alle infermiere, vengono impartite nozioni di questa importante materia.

Poi, poco a poco, tutto cambia anche nell’Ospedale di Reggio Emila che viene riscostruito ex novo, si ammoderna, e finisce per diventare, al giorno d’oggi, uno dei migliori in Europa.

E,  Ines commenta:  se qualcuno oggi lavorasse come facevamo noi allora, lo caccerebbero a pedate!

Barbara Bertolini  -  © tutti i diritti riservati

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